RISCOPRIAMO L’OFFERTORIO

“Abbiamo ricevuto questo pane, lo presentiamo a Te; abbiamo ricevuto questo vino, lo presentiamo a Te”.

Le parole presuppongono il gesto con cui l’assemblea porta i propri doni all’altare, come il ragazzino che tira fuori i pani e i pesci; sembra ben poco per sfamare tanta gente, ma se Dio benedice l’offerta umana questa basterà.

Nella Chiesa antica, i fedeli consegnavano ai celebranti pani e piccoli fiaschi di vino; i diaconi sistemavano sull’altare la quantità necessaria per la comunione, il resto veniva depositato per essere distribuito ai poveri.

Per ricevere il pane eucaristico era innanzi necessario aver contribuito con la propria offerta; la consegna faceva parte del rito (così Cipriano di Cartagine, alla metà del III secolo, rimproverava una donna ricca, ma avara: “Tu vieni al rito del Signore senza il pane del sacrificio, ma poi ardisci ricevere una parte del pane sacrificato, offerto dal povero”).

La partecipazione all’offertorio denotava l’essere o meno in comunione con la Chiesa.

Come sappiamo, le misure di contenimento della pandemia rischiano di stravolgere il senso dell’offertorio:

pane e vino si trovano sull’altare e le offerte non vengono portate all’altare, come se l’assemblea non avesse nulla a che fare con esse. E anche la raccolta delle offerte, lasciate all’inizio o alla fine, è come se fosse una qualunque raccolta di fondi, anziché la forma assembleare della oblazione liturgica, che mantiene sempre un carattere sacro.

E’ l’offerta fatta in vista del Sacrificio, con la quale il fedele si unisce al grande atto che si compie sull’altare.